Vito Umberto Celiberti
Ci sono uomini che attraversano in punta di piedi la vita, riservati nel pubblico e nel privato, discreti, garbati, onesti… galantuomini, a dirla con un termine desueto. Collera, litigi, pettegolezzi non fanno parte del loro corredo genetico, così profondamente “per bene” e rispettosi del prossimo e delle regole, da non ravvisare in chi è loro […]
Ci sono uomini che attraversano in punta di piedi la vita, riservati nel pubblico e nel privato, discreti, garbati, onesti… galantuomini, a dirla con un termine desueto. Collera, litigi, pettegolezzi non fanno parte del loro corredo genetico, così profondamente “per bene” e rispettosi del prossimo e delle regole, da non ravvisare in chi è loro accanto, malanimo e slealtà. Uomini incapaci di difendersi dalle angherie di colleghi e “soloni” del gotha intellettuale, tanto da apparir quasi sprovveduti, soprattutto quando scelgono di restar
Vito Celiberti e la sua maestra Angela Basta Guida lontani dalle luci del protagonismo, pur se “attori” del loro tempo. Vito Umberto Celiberti è uno di questi uomini. Nasce il 2 gennaio del 1933, la sua mamma è Emilia Desderi, nobildonna di Lanciano e valente latinista che rinuncia alla docenza per dedicarsi alla famiglia, il suo papà è il professor Armando Adolfo Celiberti, storico, studioso ed erudito letterato che da lui tanto si aspetta. Vito intraprende gli studi classici, versi latini ed elegie greche musicano la sua infanzia, ma è attratto dalle logiche della tecnologia.
Manualità e precisione gli consentono di acquisirne il linguaggio e apprenderne le dinamiche con estrema facilità. Costruisce radio a galena, oscilloscopi, inventa geniali e sofisticate apparecchiature tecniche e spesso lo si vede passeggiare e discutere di elettrodi e magneti con il suo amico Leonardo Angelillo, docente di Tecnica presso l’Ente Pugliese per la Cultura Popolare. Conseguito il diploma, si iscrive alla facoltà di Ingegneria, quando può inforca la sua “vespa” per recarsi a Bari o sbrigar commissioni in paese. E’ giovane, ha poco più di 20 anni quando in via Dante, al civico 12, incrocia lo sguardo di una splendida fanciulla: Enza De Marzo. Il suo sorriso smagliante e i raggi d’oro intrappolati nei biondi capelli, gli ruberanno il cuore; è amore a prima vista e durerà per sempre. Nascono Armando, Emilia, Vittoria, Isabella ed Alessio, con loro anche il piccolo Giulio, fratello di Vito, dal ’63 orfano del papà. La famiglia cresce e per sostenerla Vito interrompe gli studi universitari, consegue il diploma in Biblioteconomia e dal 1959 al 1993 dirige la Biblioteca Comunale gioiese, ne cura la gestione e la impreziosisce con la donazione di oltre 2.000 testi rinvenuti nella biblioteca paterna. Ad essi sarà annessa la poderosa raccolta di libri di Don Vincenzo Angelilli ed un importante lavoro di ricerca sul catasto onciario. In quegli anni Vito riveste l’incarico di funzionario e responsabile dei servizi Cultura, Turismo, Sport, Spettacolo e Tempo libero, anni in cui resiste alle lusinghe di far “carriera” e rinuncia a prestigiose “promozioni” nel Palazzo comunale, pur svolgendo spesso e volentieri incarichi per la Segreteria. Trascorre le sue giornate nella biblioteca ospitata dapprima in Palazzo San Francesco, poi nel Castello. In tanti lo ricordano intento nei suoi studi, chino sui libri a prendere appunti tra la polvere degli archivi, sempre disponibile e gentile con gli utenti, cui presta con fiducia (non sempre ben riposta) anche testi preziosi, ed in particolare con gli studenti che accoglie con cordialità, mette a proprio agio, consiglia e guida nelle ricerche con la stessa cura, la stessa pazienza e le stesse attenzioni riservate ai propri cari. Un approfondimento, una tesi diventano un viaggio entusiasmante, offre spunti di riflessione, allarga gli orizzonti, non si risparmia. Per 37 anni – l’intera vita lavorativa – presterà servizio in biblioteca senza assentarsi un solo giorno, caso di certo più unico che raro nel dilagante assenteismo che inquina il pubblico impiego. Dal ’63 al ’73 pubblicherà “Pagine di storia gioiese: I Soria, il Capitolo e l’Università gioiese dal 1792 al 1848”, “Brevi note della storia dell’apicoltura pugliese”, il “Castellum Montis Joviae dalle origini alla fine del secolo XII” e “Le dispute patrimoniali in territorio Johe dai Normanni alla fine del XVIII”, testi editi con l’Archivio Storico Pugliese. Pubblicherà in seguito “Onomastica stradale di Gioia del Colle e del suo agro” in collaborazione con Nicola Bitetti, “La funzione della biblioteca nel contesto di una cultura non d’elite”, “Altamura federiciana” ed innumerevoli saggi ed articoli su riviste culturali. Diviene socio ordinario della “Società di Storia Patria per la Puglia” nel ’64 e dell’ “Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano” nel ’79, anno in cui avrà inizio la sua puntuale e feconda collaborazione con la Gazzetta del Mezzogiorno, conclusasi nel 1988. L’impegno e la professionalità di Vito sono riconosciuti oltre il campanile. A Noci, Altamura e in comuni vicini terrà corsi di formazione per bibliotecari, aiuterà numerose biblioteche a “sorgere” e verrà consultato in qualità di esperto. Talvolta, mentre si reca a Noci con la sua ‘500, porta con sé il piccolo Armando. Tra i suoi ricordi un papà mai adirato, sempre paziente e disponibile nel rispondere con dovizia di particolari, in modo esaustivo e circostanziato, ai tanti “perché” dei suoi figli. Non vi è ricordo di un’alzata di voce, di una parola volgare, di liti o maldicenze… né è stato mai visto da loro… “in canottiera”. Coltiva le sue pianticelle sul balcone di casa, la stessa costruita da nonno Vito in via Roma, le cura con amore e dedizione, d’altra parte adora la verdura che non manca mai sul desco. Ha un hobby insolito: colleziona modellini di aerei della II Guerra Mondiale, alcuni da lui stesso costruiti e dipinti, curatissimi nei particolari, in scala 1/43, accanto a loro carri armati, soldati, moto ed automobiline, centinaia di modelli ancora oggi “in coda” sulle mensole del suo studio.
Preciso, metodico, instancabile e costante è un prezioso punto di riferimento per gli amici di sempre, il dottor Oliva, Vito Surico, Antonio Donvito, che lo volle con sé in convegni, congressi, visite archeologiche ed incontri prestigiosi, e Gennaro Losito. A lui donerà il 28 dicembre del 1999 la stampa rilegata di “Storia documentaria di Gioia del Colle – Dalle origini a Roberto D’Angiò”, un corposo e dettagliato studio storico costato anni di impegno e ricerca. Sa di aver lasciato in buone mani il suo lavoro. Il 10 maggio del 2000 scopre che Da sinistra: Vito Celiberti, Antonio Donvito, Gennaro Losito, Antonio Cirsella Sergio Gennaro ha proposto al Rotary, presieduto da Antonio Cirsella Sergio, di pubblicare l’opera e che la presentazione avverrà il 18 maggio… E sarà ancora Gennaro, con un modesto contributo dell’Assessorato alla Cultura di Pino Dentico a pubblicare la sua ultima opera, “Da Monte Sannace a Gioia: Storia di due città” nel 2003, una trascrizione più “semplice, comprensibile e divulgativa” per non addetti ai lavori, della precedente opera. Una trentennale frequentazione vede Vito e Gennaro insieme, sin dal Consiglio della Pro Loco nei suoi anni d’oro. Le tante passeggiate serali intorno a Piazza Pinto – anche cinque giri completi – argomentando con gusto, gli scritti “lasciati in custodia” affinché non vadano dispersi, molti dei quali inediti, perfettamente rilegati e vergati con scrittura così precisa e lineare da sembrar stampata, le foto, preziose e rarissime testimonianze di un recente passato ed il regalo ancor più prezioso di una sincera amicizia li legano indissolubilmente in un profondo affetto. Vito, ridotto in schiavitù dal tabacco, tanto da dover ricorrere a cure sanitarie, non fumerà mai al cospetto di Gennaro, in segno di rispetto. Pochi giorni prima di morire, nel Natale 2008, sconfitto dall’Alzheimer che in breve offusca l’azzurro del suo sguardo, sgomenta e devasta la coscienza, tentando di sottrarre, insieme ai ricordi, anche l’ultimo vessillo di dignità, riconosce Gennaro e al momento del commiato si alza per accompagnarlo alla porta… Ad allietare i suoi ultimi anni l’amata nipotina Enza, di cui ha vissuto la travagliata nascita e che tanta gioia gli dona con la sua allegria, l’affetto dei figli, anche di chi è lontano, di Armando che ogni giorno riceve in dono un suo sorriso mentre lo sbarba… di Isabella che scriverà per lui struggenti pensieri, per poi affidarli ad una lettera che il cuore ha già recapitato in paradiso. A Vittoria il compito di trasfigurarli in luce e colori, decodificando parole ed emozioni nei tratti semantici del più universale dei linguaggi. L’amata consorte, con cui ha diviso gioie, dolori e sacrifici, ne ha cura fino all’ultimo minuto ed ancor oggi lo ricorda con sguardo umido di pianto. Un uomo mite, sottile come un giunco, dallo sguardo perso nei pensieri, spesso solo, nel Bar Alfieri… davanti ad una tazzina di caffè, in attesa che le dita, rese gialle dalla nicotina delle tante sigarette fumate di nascosto, non senza tremare, la avvicinino, ormai tiepida, alla bocca. Gli accendini nelle tasche sono da usare “se va via la luce nelle scale”, ma il pacchetto stropicciato racconta un’altra storia, vissuta in punta di piedi, senza recar fastidio a nessuno, neanche alle istituzioni di cui fu per 37 anni devoto servitore, che si avvalsero e fregiarono del suo impegno letterario e a chi, l’8 gennaio del 2009, scordò di rivolgergli l’ultimo, estremo saluto.
Dalila Bellacicco, da La Piazza, 27 luglio 2009
15 Luglio 2016