La ‘fanòve’ a Gioia del Colle
Una delle tappe più importanti per l’umanità è stata sicuramente la scoperta del fuoco. Proprio per l’importanza che questa scoperta ha rivestito per l’umanità e per i benefici che ha apportato nella vita degli uomini, nell’antichità fiorirono numerosi miti sul fuoco, inteso come elemento riservato esclusivamente agli dei. A testimonianza di questa esclusività divina circa […]
Una delle tappe più importanti per l’umanità è stata sicuramente la scoperta del fuoco.
Proprio per l’importanza che questa scoperta ha rivestito per l’umanità e per i benefici che ha apportato nella vita degli uomini, nell’antichità fiorirono numerosi miti sul fuoco, inteso come elemento riservato esclusivamente agli dei.
A testimonianza di questa esclusività divina circa l’utilizzo del fuoco ci soccorre il mito maggiormente conosciuto, che il poeta greco Esiodo (VIII-VII secolo a.C.) ci ha tramandato: quello di Prometeo.
Uno dei Titani, Prometeo, che non partecipò alla sommossa ordita contro Giove, ma voleva bene agli uomini, nel vedere la loro condizione misera pensò: Voglio aiutare gli uomini. Voglio che la loro vita diventi meno selvaggia, che essi imparino a difendersi dalle tigri e dai cinghiali, che coltivino la terra, lavorino i metalli, si nutrano di cibi caldi e arrostiti e non di sanguinanti e crudi resti di animali. Voglio donare all’uomo il fuoco!
Prometeo, pur sapendo che questo suo desiderio era contrario a quello di Giove e che un tale dono fatto agli uomini avrebbe causato la sua rovina, decise di sfidare l’ira del capo degli dei. Mentre gli dei stavano banchettando felici sul monte Olimpo, Prometeo entrò nelle fucine del dio Vulcano e gli offrì da bere del vino mescolato con molto succo di rossi papaveri dicendo: Sono venuto a portarti quest’anfora di vino etnèo. Bevi, fabbro laborioso, questo ti darà più forza che il tuo nèttare! Approfittando del torpore in cui era caduto Vulcano e del fatto che il fuoco era rimasto incustodito, Prometeo, raccolse alcuni tizzoni scintillanti in un bastone cavo che lo stesso Vulcano gli aveva donato e portò il fuoco agli uomini sulla terra, gridando: Vi porto il fuoco! Vi porto la vita, la civiltà, la gioia! Il tonante Giove udì le urla di vittoria e scattò: Il temerario che ha donato agli uomini il fuoco deve essere punito. E così lo sfortunato Prometeo fu punito.In moltissimi Comuni italiani in concomitanza della festività di San Giuseppe si ripete la tradizione e l’usanza dell’accensione di falò.
A Gioia del Colle l’usanza di accendere falò prende nome di fanòve. Il termine dialettale fanòve, che deriverebbe dalla parola greca φανός, significa fiaccola, lanterna, falò.
La fanova è accesa in varie ricorrenze, a volte viene anche ripetuta più volte nella stessa località.
La fanova, un rituale di origine pagana, trasformato successivamente in una ricorrenza cristiana, in origine aveva la funzione di purificare dal vecchio e propiziare una nuova vita.
Infatti al fuoco, simbolo del passaggio dalle tenebre alla luce, è legata la prima parte della celebrazione della liturgia della Veglia Pasquale.
I rituali stagionali del fuoco, riti di generazione della vegetazione e di rinnovamento dell’anno, sono tipici delle culture agrarie del passato e del presente.
Il fuoco era considerato propizio alla crescita dei raccolti, al benessere degli uomini e degli animali e veniva utilizzato per bruciare le stoppie dopo la mietitura dei raccolti, liberando i campi di quella paglia inutilizzabile e per produrre quella cenere che costituiva un naturale concime per quei terreni da mettere nuovamente a coltura. Inoltre il fuoco veniva utilizzato come elemento distruttore di malattie contagiose, attraverso il ‘rogo’ di abiti ed oggetti infetti; si pensava che avesse la funzione di allontanare, attraverso la sua forza distruttiva, le influenze nefaste che minacciano la vita.
Infatti a Castellana Grotte, dove quest’anno si è celebrata la 329° edizione delle fanove, in onore dei Maria SS. Della Vetrana, questo rito vuol rievocare il miracolo verificatosi l’11 gennaio 1691, data in cui Castellana e i suoi abitanti furono guariti e liberati dalla peste, per l’intercessione della Madonna della Vetrana.
Anche a Gioia si credeva che il fuoco allontanasse alcune malattie. Infatti il Sindaco di Gioia, Carlo Rosati, il 30 gennaio 1860 afferma che nel 1656 mentre la peste infuriava nel nostro Reame ed i vicini Paesi, fu il morbo letale spinto e cacciato dalle mura della nostra Patria, mercé il patrocinio di S. Rocco, che apparve con una spada fiammeggiante con cui lo fugò e la nostra Terra fu salva.
La pratica della fanove si effettuava in concomitanza della fine dell’inverno, che in tal modo veniva scacciato, e dell’inizio della primavera, che tornava a ricordarci il tempo di risveglio e di rinascita della natura, la quale si preparava ad una nuova vita e a nuove produzioni agricole. Spesso dal modo in cui fiammeggiava la legna che veniva bruciata, si traevano previsioni sul tempo e sui futuri raccolti.
La tradizionale fanova ricorre spesso nella nostra Regione. È accesa il pomeriggio del 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, in alcuni centri del foggiano, a Barletta e a Bisceglie, a Capurso. L’usanza trae origine dalla credenza popolare secondo cui la Madonna volle asciugare i panni di Gesù Bambino.
Il giorno 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, è accesa a Laterza, a Putignano, a Noci, a Corato, a Ruvo e a Minervino.
Si accende a Grumo e in qualche altro paese del barese anche la notte del Natale, si dice per riscaldare il Bambino Gesù.
L’11 gennaio, ricorrenza della festa della Madonna della Vetrana, si accende a Castellana Grotte.
A Grumo, ad Andria, a Giovinazzo, a Palo del Colle la fanova viene accesa il 17 gennaio, festività di Sant’Antonio abate e data di inizio del Carnevale.
Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, la fanova si accende a Toritto, Bitetto e Santeramo e Altamura, Gravina e Noicattaro
Il 25 marzo, festa dell’Annunziata, si accende ancora a Noicattaro e anche ad Acquaviva.
A Gioia del Colle il falò si accende il 19 marzo in diversi punti del paese. Nei tempi passati si trascorreva alcune ore in allegria, si mangiavano legumi assortiti, ceci, fave, cotti alla meglio sotto la brace o in caldaie o pignatte e a volte si portava a casa un po’ di brace per riscaldarsi. Alcuni conservavano anche un po’ di cenere, che veniva poi sparsa sotto gli alberi per propiziarsi un buon raccolto. Un po’ di cenere si conservava per essere utilizzata dalle casalinghe come aggiunta alla lisciva per lavare la biancheria, come elemento candeggiante.
A Gioia il deputato Giuseppe Gallo, durante il suo mandato parlamentare (2001-2006) e anche oltre, ha fatto rivivere questa antica pratica popolare, allestendo un grosso falò in Piazza Plebiscito, che ardeva dalla sera del 19 marzo, festa di San Giuseppe, suo Santo protettore, fino al mattino successivo.
La fanova è una delle tradizioni ancora vive nel nostro paese. Si accende il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, ma i preparativi iniziavano alcuni giorni prima.
Anticamente in ogni spiazzo del Centro storico veniva posizionata catasta di legna e gli abitanti dei vari borghi facevano a gara per confezionarne una più grande delle altre sia per altezza che per grandezza e per durata del fuoco. La raccolta della legna in genere era affidata ai più piccoli, attraverso una questua fatta presso le famiglie del rione, che partecipavano alla buona riuscita della festa. Venivano raccolte sia fascine di legna sia alcuni tronchi messi da parte per l’occasione. Veniva chiesto agli abitanti del borgo di fornire anche ceci, fave, patate, prodotti che venivano utilizzati durante l’accensione della fanove.
Agli adulti spettava il compito di selezionare il materiale raccolto, utilizzando la legna più stagionata per allestire una buona fanova, che primeggiasse tra le altre.
Intorno al falò un gruppo di donne, con i loro abiti lunghi, si intratteneva con i più piccoli raccontando loro delle storie e rivolgevano anche preghiere a San Giuseppe per ottenere buoni raccolti, salute e qualche favore per i propri cari. Nel frattempo queste donne prestavano attenzione perché le patate, i ceci e le fave che avevano messo alla base del falò non bruciassero, ma cuocessero in modo corretto. Spesso i ceci e le fave venivano messi in alcune padelle perché non si sporcassero di cenere o non si abbrustolissero eccessivamente, deludendo le aspettative di piccoli e di grandi che pregustavano un gradito assaggio. A volte accanto a queste donne c’era un c’era un uomo che intonava canzoni popolari accompagnandosi con un’armonica a bocca, subito imitato dai presenti che cantavano e ballavano fino a tardi. I presenti ingannavano l’attesa della cottura dei ceci e delle fave mangiucchiando taralli fatti in casa e a volte gli uomini li innaffiavano con il buon vino primitivo di propria produzione.
Tra racconti, degustazioni varie, canti e balli gli adulti si trattenevano intorno al fuoco fino a tardi, anche se l’indomani sarebbe stato un giorno lavorativo; i bambini si trattenevano intorno alla fanova fino a quando i genitori non li portavano a casa per permettere loro di riposare ed affrontare riposati un nuovo giorno di scuola.
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27 Novembre 2020