Ipogei cimiteriali a Gioia del Colle
Prima che Napoleone Bonaparte nel 1804 emanasse l’editto di Saint-Cloud, con il quale si vietava, nei territori da lui governati, di seppellire i morti all’interno delle Chiese o nella zona antistante il sagrato delle stesse o addirittura in casa, anche a Gioia del Colle si era soliti seppellire i defunti all’interno delle mura cittadine. La […]
Prima che Napoleone Bonaparte nel 1804 emanasse l’editto di Saint-Cloud, con il quale si vietava, nei territori da lui governati, di seppellire i morti all’interno delle Chiese o nella zona antistante il sagrato delle stesse o addirittura in casa, anche a Gioia del Colle si era soliti seppellire i defunti all’interno delle mura cittadine.
La motivazione di tale editto era duplice: la prima era di carattere igienico-sanitario, che evitava di sovraffollare i pochi spazi utilizzati e la diffusione di olezzi e malattie e la seconda di carattere socio-politico, quello cioè di avere tombe uguali per tutti, in ossequio ad uno dei tre principi che avevano portato allo scoppio della Rivoluzione francese, quello dell’uguaglianza dei cittadini.
Dalle Sacre Visite che gli arcivescovi di Bari effettuarono alle Chiese di Gioia a partire dalla metà del Cinquecento veniamo a conoscenza dei luoghi utilizzati per le sepolture per i defunti gioiesi.
Dagli Ordini o Decreti della prima Visita effettuata nella Chiesa Madre di Gioia nel 1578, da parte dell’arcivescovo di Bari Antonio Puteo, veniamo a conoscenza Che dal muro vicino l’Altare di Santo Cataldo fra la Sacrestia, et il Choro si levano certe ossa di teste, et altri membri di mortj et si tenga più netto et quella finestra, ove si è visto dette ossa stare … Per la cappella di San Sebastiano, sempre nella Chiesa Madre, si ordina di livellare al pavimento della cappella la pietra sepolcrale, avverta il Visitatore, che tutte le sepolture ne’ luoghi, dove sono permesse stiano ben chiuse, accioche non esalino fetore, e habbiano i coperchi di pietra, che vadano al piano col pavimento. L’arcivescovo nota anche l’assenza di porte, ò cancelli all’ingresso del cimitero antistante la porta maggiore della Chiesa Madre, che permetteva agli animali di pascolare indisturbati sul luogo sacro e di calpestare le umili tombe.Anche l’arcivescovo di Bari Giulio Cesare Ricciardi, a seguito della Sacra Visita del 1593 negli Ordini che impartisce annota che le sepolture all’interno della Chiesa Madre, nonostante le disposizioni del suo predecessore, risultano ancora sconnesse e, a volta, anche aperte e maleodoranti e quindi ordina che tutte le sepolture si serrino in modo et agiustino che le fissure non possino causare fetore. Nel cimitero antistante la Chiesa ordina che si levino l’arbori che vi sono, et si purghino tutte l’herbe mantenendosi come si conviene netto e dalle fenestre che corrispondono al detto cimitero non si permetti in modo alcuno che si lanci lordura alcuna.
L’arcivescovo Diego Sersale nel 1640 segnala che tutto il pavimento della Chiesa Madre è lastricato di lapidi sepolcrali non sempre livellate al pavimento. Lo stesso Sersale nella Visita del 1658 nota che il pavimento della Chiesa non è ancora del tutto livellato e dalla botola semiaperta fuoriesce un fetore nauseabondo e nella Visita del 1662 ordina di chiudere la botola del sepolcro soggiacente l’altare di San Sebastiano, l’altare del Monte Carmelo, l’altare di Santa Maria di Costantinopoli, l’altare di San Leonardo.
Nel 1695 a seguito della sua Visita l’arcivescovo Carlo Loffredo ordina di allineare al pavimento della Chiesa Madre la lapide sepolcrale di una tomba posta immediatamente fuori della cappella del Crocifisso, la cui inosservanza avrebbe comportato la perdita dello ius sepelendi. Inoltre prescrive: Nel cimitero avanti l’atrio della Chiesa Madre vi si facci di sopra per tutta la continensa di esso una selciata con la Croce di sopra et Iscritione à lettere maiuscole Coemeterium.
Il sagrato della Chiesa Madre, dove era ubicato questo cimitero, prima della ricostruzione della Chiesa Madre nel 1764, era molto più ampio e quindi il cimitero occupava un ampio spazio.
Al di sotto del pavimento della Chiesa sono presenti quattro ipogei. Una esplorazione effettuata dal Gruppo Speleologico gioiese negli anni Ottanta ha portato alla luce i quattro ambienti, che erano stati colmati di terra. Essi erano situati sul lato destro e sinistro della navata; avevano identica forma e dimensione ed erano comunicanti a due a due tra di loro. Nel 1996, a seguito di lavori straordinari per eliminare infiltrazioni di umidità, inizialmente sono stati rinvenuti e svuotati di terra i quattro ambienti sotterranei. Sembra, però, che successivamente quegli ambienti sono stati colmati, per timore di un crollo della pavimentazione sovrastante.
Nel luglio del 1837 imperversò in Puglia il colera, che a Gioia, su una popolazione di 12.648 abitanti, dal 7 luglio al 14 settembre, mieté ben 633 vittime.
Poiché i sepolcri delle chiese erano pieni i cadaveri furono ammucchiati all’interno e all’esterno dell’antica cappella di San Rocco, adiacente le mura cittadine. A causa del fetore dei cadaveri insepolti e per l’estendersi del contagio, il Comune ordinò che i morti fossero inumati nel Cimitero comunale, che fu battezzato ‘Camposanto dei Colerosi’.
Il Cimitero dei Colerosi si saturò e il nuovo Cimitero fu costruito a partire dal 1841.
La resistenza alla costruzione del Cimitero, o meglio Camposanto (Campo Santo) come viene spesso ricordato, e all’inumazione dei defunti in quel luogo e non più nelle chiese e nei loro dintorni, sembrava ai cittadini privare i morti della vicinanza e del conforto divino, quasi una discriminazione per i più poveri.
La popolazione, nonostante alcuni disordini popolari, si convinse a cambiare atteggiamento allorquando il 4 agosto 1837 vi videro sepolti Marcellino Cassano e donna Gaetana Basile, appartenenti alle più ragguardevoli famiglie di Gioia.
Nell’Archivio storico del Comune di Gioia è possibile visionare la risposta che il sindaco gioiese del tempo, Lorenzo Ceppaglia, inviò al Regio Giudice del Circondario di Gioia il 15 agosto 1837 per dare chiarimenti in merito ai moti popolari verificatisi alcuni giorni prima, in occasione del seppellimento di Marcellino Cassano. In essa si diceva che il Camposanto in Gioia si era aperto provvisoriamente non per seppellire i cadaveri di persone morte a causa del colera, ma per tutti coloro che avevano avuto la disgrazia di soccombere per ogni altra sorta di malattia, di ogni sesso o condizione. Il sindaco sottolinea che i sepolcri delle Chiese dei Padri Riformati, della Confraternita del Purgatorio e dei Domenicani dall’anno precedente non ricevevano cadaveri per non sentirsi dei miasmi e i sepolcri della Chiesa maggiore erano pieni da più tempo e incapaci di contenere altri cadaveri per via dei miasmi putridi che fuoriuscivano dagli ipogei ormai pieni.
Il Convento di Sant’Antonio o dei Padri Francescani Riformati, a seguito del colera, nel 1837, fu adibito a lazzaretto mentre il sagrato della Chiesa fu utilizzato come cimitero, come da testimonianza di una lapide in esso presente, con un teschio e due tibie incrociate e l’iscrizione A. D. 1838. Su un’altra botola presente all’interno della Chiesa di Sant’Antonio oltre ad un teschio si possono leggere le seguenti date: 1838 e 1939; la prima data si riferirebbe alla data di utilizzo delle sepolture, mentre la seconda alla ripavimentazione della Chiesa, che venne effettuata in quell’anno.
Sappiamo che l’abate Francesco Paolo Losapio fu sepolto nella Chiesa di Sant’Antonio, oggi detta anche Chiesa del Crocifisso.
A proposito di questa Chiesa resta confermato l’utilizzo degli ipogei ad uso di sepoltura dalla ricognizione che nel settembre del 1977 il Gruppo Speleologico Gioiese effettuò nella parte sottostante l’area occupata dall’edificio sacro, esplorazione che mise in evidenza la presenza di quattro ambienti, uno sotto la navata della stessa e tre ubicati sotto il sagrato. Infatti fu rilevata la presenza di abiti ed ossa umane sparse in modo confusionario, segno della devastazione provocata a seguito dello svuotamento e del trasporto delle ossa nell’ossario cimiteriale, come conseguenza della chiusura degli ipogei a causa dello scoppio di un’epidemia colerica.
Anche la Chiesa di San Francesco di Assisi in Piazza Plebiscito racchiudeva al suo interno delle sepolture. Il Padre Bonaventura da Lama nella sua Cronica: Fu quello dei Padri Conventuali a spese di Nicolò il Padre (di Luca D’Andrano) con la cappella del Santo del suo nome… fabbricatovi da basso con bell’arte un sepolcro per i loro successori ed eredi; oltre l’altro sepolcro di marmo di nobil lavoro per ordine di Luca D’Andrano con un altare a modo di cappella vicino al sepolcro piantato alla parte sinistra prima d’entrare alla porta del choro.
Nel 1932 a seguito di alcuni lavori eseguiti nella Chiesa fu rinvenuta la parte frontale del sarcofago di messer Luca d’Andrano, che, trasportata a Taranto nella prima metà del Novecento e collocata nel palazzo Magnini, nel 2002 è ritornata nella sua originaria sede. Nel 1995 una ricognizione effettuata dal Gruppo Speleologico Gioiese ha portato alla scoperta di un passaggio che conduce agli ipogei, anticamente utilizzati come luogo di sepoltura esclusiva dei frati, con tecnica ‘a seditoio’. Si tratta di quattro ipogei situato sotto l’altare maggiore ed il coro, in cui erano presenti resti ossei dei frati conventuali. La presenza di detriti provenienti da un precedente scavo, forse clandestino e rivolto alla ricerca della tomba del principe Carlo I De Mari, la cui presenza è confermata da una lapide posta anteriormente all’altare maggiore della Chiesa, farebbe ipotizzare la presenza di altri ipogei.
Anche le Chiese di San Domenico e di Sant’Andrea sono stati luoghi di sepolture.
Della Chiesa di San Domenico si conserva, murato nel pavimento del vano di accesso all’adiacente campanile, il chiusino della botola di accesso all’ipogeo sottostante la chiesa, che era utilizzato per la sepoltura dei monaci, che presenta un’iscrizione. Dell’accesso all’ipogeo, che era posto al centro della navata tramite una botola, non rimane alcuna traccia. Infatti verso la metà del Novecento i lavori di pavimentazione della Chiesa hanno portato alla chiusura dell’ingresso a quei locali sotterranei.
Un ipogeo di modesta dimensione, sottostante la navata centrale, è stato portato alla luce a seguito dei lavori di ristrutturazione e consolidamento della Chiesa di Sant’Andrea alla fine del Novecento. Gli ipogei erano già stati sconvolti da lavori di ripavimentazione della Chiesa, effettuati intorno alla metà del Novecento. Anche in questo caso l’ipogeo era utilizzato per la sepoltura del clero che operava nella Chiesa e probabilmente anche di alcuni membri dell’Arciconfraternita.
Non si hanno notizie di ipogei presenti in altre Chiese edificate a Gioia entro l’Ottocento, come quella quella della Purificazione di Maria o della Candelora o quella di San Rocco, anche perché appartenenti ad un periodo in cui era espressamente vietato seppellire defunti al loro interno. L’unica chiesa che potrebbe far pensare che in passato abbia contenuto delle sepolture al suo interno potrebbe essere quella di Sant’Angelo, essendo risalente al Cinquecento, ma notizie in tal senso ci mancano e solo qualche saggio di scavo potrebbe fugare ogni dubbio. Lo schiavone Bartolomeo Paoli e sua moglie Livia, che secondo alcuni storici fecero edificare la Chiesa, avrebbero potuto utilizzare l’edificio sacro non solo per le cerimonie religiose ma anche per la sepoltura dei loro familiari, come si era verificato per la famiglia D’Andrano nella chiesa di San Francesco.
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2 Maggio 2022