Due mestieri in estinzione: il gelataio ambulante e il venditore di “grattamariànne”
Il gelataio ambulante In passato nulla andava perduto, neppure la neve, che veniva recuperata e stipata nelle neviere. Allorquando si verificavano delle nevicate, atteso che non si registrava né la presenza di inquinamento atmosferico né di piogge o nevicate acide ( basti pensare che la neve appena caduta veniva tranquillamente raccolta e assaporata con il […]
Il gelataio ambulante
In passato nulla andava perduto, neppure la neve, che veniva recuperata e stipata nelle neviere.
Allorquando si verificavano delle nevicate, atteso che non si registrava né la presenza di inquinamento atmosferico né di piogge o nevicate acide ( basti pensare che la neve appena caduta veniva tranquillamente raccolta e assaporata con il vincotto ), la neve, veniva recuperata e dopo essere stata ” tagliata “, per mezzo di badili, nella parte superficiale, per evitare danni alle culture sottostanti, era trasportata nelle neviere, che non erano molto distanti dal paese, con una specie di portantina a mano a quattro portatori, chiamata vaiardo.In quel luogo la neve veniva ammassata e costipata, per farne fuoriuscire l’aria e consentirne una conservazione ottimale fino a tutta la stagione estiva. La neve veniva compressa con le pale anche perché la neviera potesse contenerne grandi quantità, affinché si compattasse uniformemente e assumesse, con l’ausilio delle basse temperature notturne e del modestissimo irraggiamento diurno, le caratteristiche del ghiaccio.
La neve, ovvero il ghiaccio delle neviere, era utilizzata per diversi scopi: per conservare cibi, come riserva di acqua potabile nei periodi di siccità, per uso ospedaliero e medico (cura di ascessi, contusioni, febbre), per la conservazione di prodotti caseari, e anche per la preparazione di sorbetti e bevande fresche.
Era acquistata da chi aveva bisogno di conservare i cibi freschi, come i gestori di bar, e dava vita ad un vera e propria industria che offriva un’opportunità di lavoro a coloro che si occupavano di questa primordiale catena del freddo. La neve, oltre che nei bar, per preparare gelati, per rinfrescare bibite, per preparare granite, poteva essere mescolata a sciroppi o al vincotto.
Oggi per mangiare un buon gelato basta entrare in un bar o sedersi ad un tavolino, dove si può gustare anche un sorbetto o una granita. Un tempo i gelati si preparavano con la neve, o meglio, con il ghiaccio.
Quando ancora non c’erano i frigoriferi che potevano impedire lo scioglimento delle creme gelato o dei sorbetti, nella stagione estiva e durante le feste religiose si era soliti vedere il carretto del gelataio, posizionato in una strada centrale del paese, che serviva i suoi prodotti ai piccoli golosi e agli accaldati avventori.
Non si poteva scegliere tra i tanti gusti, come oggi, ma vi era una piccola varietà di scelta di gusti.
L’attività di venditore ambulante di gelati risale agli inizi del XX secolo.
Il carretto passava e quell’ uomo gridava gelati: così iniziava una canzone di Lucio Battisti del 1972. Infatti i venditori ambulanti generalmente passavano attraverso le strade più importanti del paese e al suono di una trombetta o di una campanella che alternavano con il grido: gelati, gelati!
Il gelataio doveva essere all’ altezza del suo lavoro per poter preparare e vendere un prodotto che avesse una adeguata consistenza e incontrasse il gusto degli acquirenti.
Infatti il suo carretto, in mancanza di attrezzature refrigeratrici, doveva mantenere le creme ad una temperatura costante per evitare lo scioglimento delle stesse o che si ottenesse l’effetto contrario e cioè la formazione di una massa fortemente ghiacciata, simile a un ghiacciolo.
Il carretto, perciò, era dotato di uno scomparto in cui veniva conservato del ghiaccio, che precedentemente era stato acquistato dalla locale fabbrica di ghiaccio, che fungeva da cella frigorifera e manteneva costante la temperatura del prodotto dolciario all’ interno dei loro contenitori. Alcuni gelatai utilizzavano anche una salamoia insieme al ghiaccio.
Per evitare che il prodotto diventasse un blocco di ghiaccio il venditore di tanto in tanto con un attrezzo lo mescolava facendolo ruotare sia in senso orario che in quello antiorario.
L’attività del gelataio ambulante non è del tutto scomparsa, soprattutto in occasione di feste patronali paesane, grazie alla presenza di alcuni veterani del mestiere, che perpetuano in alcuni paesi il ricordo di questo mestiere che suscita l’attenzione di grandi e piccini.
Alla figura del gelataio ambulante dei primi tempi, che si muoveva con il suo triciclo mosso a pedali e a spinta si è passati oggi allo “street gelato”, il venditore più moderno, che si muove con un triciclo a motore, in genere un Apecar attrezzato a dovere oppure con un camper o un furgone di media dimensione, tutti dotati di impianto di refrigerazione per mantenere alla giusta temperatura i gelati.
Fa sempre un certo effetto vedere ancora oggi questi carretti ambulanti, restaurati o decorati, che testimoniano alle nuove generazioni la laboriosità dei nostri predecessori, che si sono industriati a mantenere in vita un vecchio mestiere, pur di non abbandonare la propria terra in cerca di un lavoro più stabile e remunerativo.
Un noto personaggio gioiese che svolgeva l’attività di gelataio ambulante è stato Sante Tinelli, soprannominato Santìn u caparbie, nato a Gioia nel 1922.
Con il suo carretto ambulante a forma di gondola si fermava all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi oppure all’incrocio tra corso Garibaldi, via Mazzini e via Bartolomeo Paoli. Era fornito anche di caramelle, pesciolini di liquirizia, lecca-lecca, per attirare l’attenzione dei ragazzini e in alcuni periodi dell’anno vendeva anche frutti di bosco, soprattutto corbezzoli, che preparava in cartocci di carta spessa, sagomati a forma di cono. Era un tipo simpatico e spesso inventava battute in dialetto o modi di dire dialettali o brevi proverbi e storie rigorosamente in dialetto gioiese, che avevano lo scopo di richiamare e invogliare i passanti all’ascolto e solleticavano i loro palati all’assaggio dei suoi gustosi prodotti.
Aveva anche la disponibilità di preparare gustosi sorbetti.
Il venditore di “Gratta Marianna”
I sorbetti erano utilizzati già tra il Settecento, l’Ottocento e fino all’inizio del Novecento, durante le cene di gala tra un secondo di carne ed uno di pesce e i gelati nei pranzi e nelle cene a fine pasto. Nelle famiglie di un certo rango sociale erano presenti dei servizi in porcellana specifici per tali utilizzi.
E’ incerta la derivazione e la nascita del termine “grattamarianna”.
Sembrerebbe che una certa Marianna, una venditrice ambulante del foggiano, preparasse già alla fine dell’800 una granita di limone grattugiando il ghiaccio. Per invogliare i clienti, il titolare dell’attività gridava alla moglie o alla figlia, di nome Marianna: “Gratta gratta Marianna, chiù gratte e chiù guadagne” cioè gratta, gratta, Marianna, più gratti e più si guadagna!
Da questo nome sarebbe derivato quello dato al sorbetto, prodotto che si otteneva utilizzando un attrezzo simile ad una piccola pialla.
La preparazione del sorbetto richiedeva dunque l’utilizzo di tre elementi. Occorreva essenzialmente acquistare la materia prima, consistente in una stecca di ghiaccio, un parallelepipedo a forma di colonna e del peso di circa 25 Kg., prodotta dalla locale fabbrica di ghiaccio. Era indispensabile dotarsi di un attrezzo metallico, generalmente di alluminio, che era simile ad una pialletta da falegname composta di due parti snodabili: quella inferiore aveva una parte affilata che, spinta alternativamente avanti ed indietro, grattava il blocco di ghiaccio rendendolo simile ad una granita, prodotto che si raccoglieva nel vano a mo’ di contenitore rettangolare che copriva la base inferiore. Il terzo elemento essenziale per completare il lavoro era costituito dallo sciroppo, un’essenza di vari gusti, contenuti in diverse bottiglie: limone, menta, orzata, amarena.
Quando il contenitore del ghiaccio “grattato” era pieno, veniva svuotato in un bicchiere e, a richiesta dell’avventore, si versava una dose dello sciroppo preferito e scelto.
Si gustava lentamente questo sorbetto non solo perché freddo, ma anche per apprezzarne la bontà per un tempo più lungo, utilizzando un cucchiaino.
Il venditore di grattamarianna si riforniva di qualche blocco di ghiaccio, uno dei quali serviva anche per mantenere costante la temperatura del ghiaccio ed evitare lo scioglimento. Quando i blocchi disponibili per la vendita erano esauriti si utilizzava anche quello di scorta, usato per il raffreddamento degli altri pezzi.
Anche a Gioia nei mesi estivi un venditore ambulante di grattamarianne era presente in prossimità della piazza con il suo carretto, grattava il ghiaccio e vendeva un bel bicchiere di granita che arricchiva con gusto di limone di altri sciroppi.
In tempi più recenti, su richiesta del signor Giovanni Milano, il Comune di Gioia concesse l’autorizzazione per impiantare un chiosco per la vendita di bibite fresche, con la possibilità di somministrare anche “grattamariànne”. In una cartolina degli anni ’50 è possibile vedere il chiosco, che era posizionato sul marciapiede antistante il Palazzo Lopinto, compreso tra Piazza Plebiscito e via Carlo III di Borbone, attualmente proprietà del signor Cantore, da qualche anno in parte adibito a B&B.
Tra il tratto di strada compreso tra via Lagomagno, l’attuale via Carducci, e il cavalcaferrovia, chiamato contrada Acquaro, perché ricca di acque, agli inizi del ‘900 fu impiantata una fabbrica di ghiaccio industriale, che è stata operativa fino agli inizi degli anni novanta.
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28 Aprile 2020