“La corsa dell’umanità verso la fratellanza”, murale del GRIDAS

Camminando lungo Via Giovanni XXII, giunti al luogo confinante con la Scuola Materna di Via Carlo Soria, fino a due anni fa, era visibile una piazzetta nella quale erano installate alcune panchine dipinte, sulle quali i passanti, piccoli e adulti, potevano soffermarsi e trascorrere qualche minuto di relax. Un paio di alberi di pino ad […]

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Il murale del GRIDAS andato perduto per l’abbattimento del muro di cinta della Scuola materna di Via Carlo Soria

Camminando lungo Via Giovanni XXII, giunti al luogo confinante con la Scuola Materna di Via Carlo Soria, fino a due anni fa, era visibile una piazzetta nella quale erano installate alcune panchine dipinte, sulle quali i passanti, piccoli e adulti, potevano soffermarsi e trascorrere qualche minuto di relax. Un paio di alberi di pino ad alto fusto regalavano sprazzi d’ombra ai frequentatori del luogo, che avevano l’opportunità di ammirare un grande e lungo dipinto sulla parete del muro di cinta della Scuola.

Nel 1997 l’Amministrazione comunale di Gioia fece eseguire nel nostro Comune tre murales dal GRIDAS (Gruppo Risveglio Dal Sonno): uno sulla facciata del mercato coperto, il secondo sulle pareti dei locali che ospitano gli uffici dei servizi sociali (parzialmente distrutto a seguito di lavori di ampliamento) ed il terzo sul muro di cinta del plesso scolastico di via Carlo Soria, intitolato “La corsa dell’umanità verso la fratellanza”.

Anche quest’ultimo murale è stato smantellato lo scorso anno a causa dell’ampliamento del plesso scolastico, del giardino di pertinenza e della ristrutturazione dello stabile.Questo murale, come si può evincere dal titolo, offre anche ad un osservatore poco attento un momento di riflessione sulla nostra società e sulla nostra umanità; infatti rappresentava un palestinese, un curdo, una donna islamica, un indio dell’Amazzonia, un indiano pellerossa e un bambino europeo che, insieme e pacificamente, partecipano ad una corsa in bicicletta.

Una realizzazione apparentemente banale, mentre a dir poco si tratta di un messaggio di grande attualità, di una grande lezione educativa, di alto valore morale e di grande umanità nella nostra odierna società che spesso calpesta i fondamentali principi alla base di una civile convivenza, della democrazia e del rispetto dell’altro, come dimostrano le numerose guerre e le stragi di piccoli e grandi inermi che quotidianamente i mass media si dilettano di propinarci, senza tener conto che la fratellanza, la solidarietà e il pacifico confronto costituiscono la chiave di volta che sorregge e tiene unita l’umanità.

Quale associazione se non il GRIDAS avrebbe potuto incarnare meglio nei suoi murales questo messaggio fondamentale del vivere umano?

L’Associazione GRIDAS ha eseguito murales in numerosi Comuni italiani, consegnando messaggi  di pace, di speranza, di solidarietà, valori imperituri e alla base del vivere civile.

Inizialmente era stato deliberato di realizzare  dei murales solamente sulla facciata del nuovo Mercato coperto in via Regina Elena, che presentava pareti spoglie e grigie, realizzate in cemento armato, ma, come scrisse il 27 luglio 1997 Felice Pignataro, del GRIDAS di Napoli,  visto che in tre giorni si era ultimato il grosso del lavoro, si è deciso di dipingere anche l’altro muro (quello di recinzione della Scuola materna  di Via Carlo Soria).

I “lavoratori socialmente utili” ci hanno spruzzato il fissativo, per abbreviare i tempi.

Il muro di tufo corre sopra il terreno delle aiuole sottostanti ai pini, il che ha aggiunto altre possibilità agli scherzi dei ragazzi: tirarsi le pigne, e ha complicato un po’ la pitturazione, perché ci si trovavano aghi di pino dovunque, nei colori, nelle tasche, nei pennelli, nelle scarpe, ecc.

Il tema propostoci era una gara di corsa, per cui, a destra si è cominciato con la bandiera a scacchi che indica la partenza e la folla che assiste: un anziano, un trippone, una signora col bambino in braccio, un paio di bambine, due fidanzati e due sui pattini a rotelle, esempi di varia umanità che introducono, vogliono partecipare alla corsa…

Ciclisti di diversa nazionalità in bicicletta

Ma della corsa sono restate solo le biciclette, ché abbiamo preferito, piuttosto che una “gara di corsa”, rappresentare l’auspicata corsa dell’umanità verso la pace e la giustizia sociale, simboleggiate all’estremità a sinistra del muro da un arcobaleno e un cielo limpido, mentre il fondo grigio del resto del muro allude alle difficoltà e alle tempeste del nostro nuvoloso quotidiano.

Così ogni corridore-ciclista è stato caratterizzato dalle immagini dei popoli del mondo, soprattutto quelli che vedono messa in discussione la loro sopravvivenza e il loro diritto a vivere e ad avere rispetto e dignità: un palestinese, un curdo, una donna dei paesi islamici, un indio dell’Amazzonia, un pellerossa, ma anche un bambino sul triciclo: in quanti paesi del mondo dei bambini non si ha alcun rispetto, ché anzi sono merce di scambio e vittime di ogni tipo di sfruttamento?
C’è una rulotte di Rom, altro popolo da sempre errante e tartassato, ma trainata da due biciclette, e con i simboli della loro cultura, un violino e una chitarra.

Due ciclisti e una roulotte

Fra i “corridori” ci sono pure due figure, in divisa grigia, quella dei carcerati negli USA, che alludono, oltre che a tutti i carcerati, a due casi emblematici dell’assurdità dell’amministrazione della “giustizia” nel Paese “patria della democrazia”: Mumia Abu Jamal, ingiustamente condannato a morte per un delitto che non ha commesso, da un tribunale razzista: in realtà perché era, da giornalista, “la voce dei senza voce”, informatore all’opinione pubblica dei soprusi di cui è vittima la comunità afroamericana negli USA.
   
L’altra è Silvia Baraldini, condannata a 43 anni di carcere senza aver commesso alcun reato, per avere fiancheggiato i movimenti di opposizione al governo USA, e che gli Stati Uniti si rifiutano di estradare in Italia, pur avendo sottoscritto la convenzione di Strasburgo, in cui riconoscevano la possibilità di far scontare le pene ai condannati stranieri nei loro paesi di origine. Due casi di vendetta di un potere ingiusto contro chi dissente…

Altre immagini sono quelle di un tandem affollato di immigrati, bambini e adulti in precario equilibrio, una bicicletta che cammina da sola con un ragazzo seduto al contrario sulla sella, a indicare le contradditorietà di certi percorsi umani, un tibetano, abitante di un paese abusivamente occupato dalla Cina, in rappresentanza di tutti i popoli “occupati” da altri, che non basterebbe un chilometro di muro a rappresentare.

Tre bambini cercano di far camminare una bici

C’è pure una bicicletta su cui tre bambini si ingegnano a farla camminare, ognuno manovrando qualcosa, immagine della difficoltà degli umani sforzi, ma anche dell’efficacia della collaborazione per superare le difficoltà.

Sopra le figure vola un quetzal, uccello del Centroamerica di cui la leggenda dice che vive solo libero e incarcerato muore e che divenne muto quando il suo popolo fu “conquistato”, ma tornerà a cantare quando il suo popolo riconquisterà la libertà.

È quello che speriamo per tutti gli oppressi del mondo, che l’arcobaleno, la pace, la dignità e il rispetto, non stiano più soltanto in cielo, ma siano raggiungibili e realizzabili sulla terra.

Felice Pignataro – GRIDAS nel libro: «MURALES – il canto dei muri – voci della storia, delle proteste e delle culture» a cura di Alberto de Simone e Emanuela Patella.
ARCI Genova – Progetto Intercultura, ha voluto spiegare le motivazioni che hanno spinto il GRIDAS a portare avanti il progetto dei murales
; sono parole e considerazioni che calzano ‘a pennello’ con il murale di cui parliamo.

Il bambino seduto sulla sella al acontrario e il quetzal

Poiché ci siamo fatti conoscere soprattutto facendo murales, eccoci anche noi qui, con alcune considerazioni sulla nostra esperienza, le nostre motivazioni, quello che abbiamo imparato.
La periferia in cui viviamo è un’enorme distesa di case, palazzoni di tredici piani, allineati lungo una sorta di autostrade a doppia corsia, che allontanano e isolano abitanti e palazzi piuttosto che collegarli.

Fra le case popolari ci sono anche case in cooperativa, diverse nella ragione economica della costruzione ma non tanto nell’aspetto. Qua e là una scuola, circondata da recinzioni in cemento armato sormontate da inferriate, una connotazione più adatta ad un carcere che ad un luogo di libera e viva aggregazione… Un paio di chiese, pure in cemento armato. Un paio di mercatini rionali, costruiti ed abbandonati da anni, in attesa di una improbabile apertura.

Gli spazi liberi fra gli edifici, costruiti in base alla legge urbanistica “167” si sono affollati, dopo il terremoto del 1980, di altre fabbriche di case, alcune a torre, altre, più basse, a nastro. C’è pure una grande villa comunale, finalmente inaugurata, dopo un decennio di gestazione, a fianco alle ben note “vele”, le case popolari a piramide, rivelatesi poi invivibili e in via di abbattimento e di ristrutturazione.

Dall’altro lato della strada di collegamento con i comuni vicini c’è un nuovo carcere, anch’esso un casermone a quadratini bianchi e grigi, con relativa recinzione. Non ci sono cinema, né luoghi di aggregazione, né altre destinazioni di edifici.

La disumanità della configurazione è accentuata da recinzioni e cancelli che, a protezione dai ladri e dagli “estranei” in genere, gli abitanti stessi hanno sistemato a difesa delle loro proprietà: una sorta di autocarcerazione.

Il desiderio di cambiare il mondo, di sollecitare una comunicazione umana, di abbattere le barriere è stato per noi lo stimolo, non potendole abbattere nella realtà, ad abbatterle simbolicamente dipingendole: si utilizzavano così le barriere come supporto di un discorso figurato: i muri dipinti.

C’è negli abitanti l’esigenza di un recupero della propria identità, a rischio di perdersi nel formicaio delle enormi costruzioni, testimoniata dalla dipintura del muro del proprio balcone o da qualche modifica dell’aspetto esteriore che contraddistingua la casa anche da lontano; perfino luci di diverso colore che trasformano di sera le enormi facciate in una sorta di pannelli elettronici giganti, scanditi dalle file verticali delle finestre illuminate di scale e servizi (tutti gli abitanti sono arrivati qui da altrove, avendo ottenuto la casa dopo anni di attesa altrove, e quindi il quartiere non ha una identità storica; la dipintura dei muri contribuiva anche a definire una qualche identità del deserto abitato).

I ciclisti e l’arcobaleno, speranza di luce e di pace per l’umanità

Gli unici luoghi di aggregazione laici e pubblici sono le scuole, ma anche le scuole, sia per l’aspetto esteriore, recinti e cancellate, sia per quello che si svolge all’interno, non sono realmente sentite come luogo di viva e partecipata comunicazione umana: più luoghi di tormento che di gioia, come testimonia l’elevata “evasione scolastica”.

Dipingere con i ragazzi i muri della scuola ha significato allora riconciliarli con l’istituzione, farla sentire loro come propria, concludere un percorso didattico rappresentandolo all’esterno, in perenne esposizione, a sollecitare una risposta, una reazione dei passanti, restituire un senso al fare pittura e disegno, non come gratuito esercizio finalizzato solo all’ottenimento di un giudizio dell’insegnante, ma come strumento di comunicazione efficace.

Significa ancora capovolgere il luogo comune che le strutture pubbliche “non sono di nessuno” così che possono abbandonarsi allo sfascio, ma testimoniare nei fatti che invece esse appartengono a tutti, e quindi sono affidate alla cura di ognuno.

Significa distruggere l’immagine delle scuole come luoghi misteriosi e separati per renderle invece luoghi aperti alla partecipazione di tutti, dove si elaborano e si trasmettono valori e ipotesi di nuove realtà.
Significa realizzare un’esperienza viva e significativa, e perciò da raccontare, riconciliandosi così con la scrittura per produrre testi esplicativi da diffondere, restituendo così significato allo scrivere: scrivere per comunicare, non per fare uno sterile “esercizio”.

Significa far esplodere le scuole all’esterno, realizzando un laboratorio di pittura che coinvolge più persone, favorendo la collaborazione e la socializzazione.

Certo si tratta di accenni ad una diversa modalità di fare scuola, che vanno accolti e realizzati nella prassi quotidiana.

Adulti e bambini in bici

Se, invece, dopo aver dipinto il muro, tutto torna come prima, e la scuola ridiventa un luogo angosciante di emarginazione e persecuzione, certo il lavoro fatto avrà ben poco effetto; si sarà lanciata una pietra nell’acqua stagnante e il ricordo dell’esperienza, nei ragazzi che quel giorno sono venuti a scuola invece di marinarla potrà essere uno stimolo a pensare e ad esigere una scuola diversa, più attenta alle loro esigenze.

Negli anni il nostro intervento si è esteso dai muri della nostra periferia ad altri muri, anche lontani nello spazio, da Reggio Calabria a Trento, chiamati da quanti, avendo saputo di noi, volevano rendersi più visibili attraverso un messaggio dipinto, più durevole di una manifestazione effimera, o comunque limitata nel tempo.

Così il numero dei nostri murales è andato crescendo nel tempo, fino a superare abbondantemente il centinaio. Gruppi, associazioni, movimenti hanno dipinto insieme con noi sulle superfici più diverse: muri lisci e ben conservati, intonaci “graffiati”, blocchi grezzi di tufo, blocchi di roccia vulcanica, pareti di roccia, lamiere ondulate, cemento armato, pannelli prefabbricati, pannelli di compensato, striscioni di tela…

Ogni superficie un risultato diverso, per le diverse caratteristiche del supporto, e una quantità di aneddoti e storielle, entusiasmi e incomprensioni, complimenti e cancellature, ad opera degli stessi “committenti” improvvisamente spaventati dalla loro audacia o timorosi di critiche. Abbiamo verificato così che, nonostante un diffuso quanto imprevedibile analfabetismo visivo e la difficoltà di esprimersi in maniera in equivoca, senza ambiguità, il dipingere i muri permetteva di comunicare più efficacemente che con tanti discorsi. Riusciva a “disturbare” anche, e l’abbiamo sperimentato durante il vertice dei “G7”, nel 1994, quando uno dei nostri murales fu interamente cancellato incollandoci sopra carta bianca, e un altro si tentò di impedire che si realizzasse.

Adulti in bici e bambino con un triciclo

Ecco allora che i murales diventano la voce di quelli che non hanno voce perché non hanno accesso ai media e non hanno a disposizione neanche una rete TV. Allora il fatto stesso che siano realizzati con povertà di mezzi (pennelli e pittura lavabile) li connota già, fin da lontano come lingue diverse da quella ufficiale, che perciò catturano l’attenzione.

Questo per far avvicinare i distratti; poi, più da vicino, si svolge un discorso che può essere “letto” con più attenzione.

Ci sono le figure più grandi, a voce alta, e quelle più piccole, sussurrate; aggregazioni inconsuete di elementi diversi, alterazioni di dimensioni. Alcune forme non sono forse immediatamente comprese e ci si chiede che cosa significhino, ma anche questo è importante: incuriosire, turbare, seminare inquietudine, dal momento che una prospettiva certa e accattivante per tutti non c’è, c’è però il rischio di essere tutti uniformati nel modello dominante, e ufficiale, imposto dai media, l’homo teleutens, l’uomo che pensa TV. Ecco allora l’uomo col televisore al posto della testa, che condensa in una figura la denuncia e la critica.

Forse un po’ pretenziosamente abbiamo intitolato il libro sui nostri murales L’utopia sui muri.

Certo, non si può cambiare il mondo con un pennello, né mai nessuno ha fatto una rivoluzione perché “convinto” da un quadro. Ma la rappresentazione su un muro, costantemente visibile, di una prospettiva diversa da quella che abbiamo sotto gli occhi o che non abbiamo affatto, se turba, provoca, smuove, è già qualcosa: un aiuto, un invito a chi è scontento, come noi, a unirsi per lottare invece di isolarsi per recriminare e lamentarsi. Nella speranza che un giorno si riesca ad unirsi invece di litigare e tutti insieme a cambiare le cose.

Sprint finale

È questa la nostra speranza: sempre più difficile a mantenersi viva ogni volta che ci si guarda intorno, ma tuttavia sopravvissuta. Il passo successivo sarà poi quello di passare dai dipinti alla realtà. In alcuni dei nostri murales abbiamo dipinto immagini di persone vere che sortivano da illustrazioni di libri, per rappresentare il rapporto vivo fra la “cultura” e la vita, ma nella realtà il passo non è tanto facile né scontato, né è detto che si debba partire dai libri e dalle immagini.

E, comunque, nell’attesa che si riesca a partire, non è del tutto senza senso allietare, almeno, l’attesa con un po’ di colore sulle pareti del nostro carcere quotidiano.

È un’operazione che procura gioia, in noi e negli altri, e questo rende più accettabile la vita: è un atto di amore, impagabile!

Poiché con i lavori di ampliamento e ristrutturazione dell’immobile scolastico da parte dell’Amministrazione comunale si è reso necessario ridimensionare la piazzetta e abbattere il muro di recinzione della Scuola, sul quale era stato dipinto il murale del gruppo GRIDAS, privando i passanti di quel messaggio importante del vivere civile per la società odierna, si potrebbe pensare di ripristinare il precedente dipinto non solo per lasciarne memoria ai posteri, ma anche come messaggio di solidarietà e di fratellanza, valori di cui la nostra società oggi ha grandemente bisogno?

Piuttosto che lasciare ai posteri l’ardua sentenza, all’attuale Amministrazione comunale di Gioia il consiglio di recuperare la memoria e la bellezza di un pacifico messaggio di speranza e di ‘gioia’ per piccoli e grandi!

Poichè Gioia abbonda di opere pittoriche ‘a cielo aperto’, come le Porte dell’Imperatore, i Vessilli ad arte, frutto prevalentemente di artisti gioiesi,  registra la presenza di numerose installazioni in pietra dello scultore Mario Vacca, opere che abbelliscono le strade del nostro Centro Storico e che rendono unico il nostro paese,  inoltre può vantare diversi murales realizzati, su commissione comunale,  in vari punti dell’abitato e si arricchisce di numerose statue a tema mitologico  a complemento dell’arredo urbano di alcune nuove costruzioni (alcune delle quali proprio nelle vicinanze della Scuola materna di via Soria), mi chiedo: sarebbe possibile chiedere che Gioia ottenga il titolo di Città dell’Arte, riconoscimento che la rilancerebbe ulteriormente dal punto di vista turistico-culturale?

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16 Gennaio 2025

  • Scuola di Politica

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