Alcune leggende di Gioia del Colle
Ogni paese ha le sue leggende che la tradizione orale popolare continua a tramandare fino ai nostri giorni. Riportando una tradizione orale tramandata da secoli, Vito Umberto Celiberti nel suo volume Storia documentaria di Gioia del Colle. Dalle origini a Roberto d’Angiò, scrive: Molti e molti secoli fa, una giovane donna di straordinaria bellezza, vedova […]
Ogni paese ha le sue leggende che la tradizione orale popolare continua a tramandare fino ai nostri giorni.
Riportando una tradizione orale tramandata da secoli, Vito Umberto Celiberti nel suo volume Storia documentaria di Gioia del Colle. Dalle origini a Roberto d’Angiò, scrive:
Molti e molti secoli fa, una giovane donna di straordinaria bellezza, vedova di un prode guerriero, stanca ed annoiata per la sua struggente ed incolmabile solitudine, decise di abbandonare per qualche tempo il suo fastoso palazzo di Taranto e di lenire la sua malinconia compiendo un viaggio che la conducesse in luoghi dove non era mai stata. Diede, perciò, ordine di prepararle la carrozza e quanto altro necessario allo scopo e, quando tutto fu approntato, partì per Bari.
Giunta a mezza strada, affaticata dal viaggio e dalla calura estiva, fece fermare la carrozza in uno spiazzo di una lussureggiante collina dove, sul limite della foresta di querce secolari, ai piedi delle quali scorreva gorgheggiando un fresco e sfavillante ruscello, c’era una piccola locanda per la comodità dei viandanti.Si racconta che, dopo aver consumato una cena frugale, prima di ritirarsi nella sua camera questa giovane dama uscì all’aperto per ammirare comodamente più da vicino la grande foresta circostante, pallidamente illuminata dal sorgere della luna e scintillante per la miriade di lucciole che, zigzagando basse, si rincorrevano tra i tronchi e nelle radure.
Rapita dalla inconsueta bellezza del luogo ed affascinata dal silenzio della notte stellata, il cui incanto era interrotto a tratti dagli striduli cori dei grilli, saltellando nel sottobosco, si divertì un bel po’ ad inseguire le lucciole, per coglierne al volo qualcuna ed ammirarne lo splendore luminescente sul palmo della mano dischiusa.
Intenta com’era alla non facile cattura di questi vaganti e balzellanti lumini, ella non si avvide che, dalla ricca collana che le sfiorava il seno, una pietra preziosa si era distaccata e caduta silenziosamente sul fitto tappeto erboso.
Il mattino dopo, mentre proseguiva in carrozza il viaggio verso Bari ed erano state percorse già diverse miglia, accarezzando languidamente quella stessa collana che lo sposo le aveva donato come pegno del suo amore, le sue dita percepirono la mancanza della gioia più bella che l’arricchiva.
Fatta tornare immediatamente indietro la carrozza fio alla locanda dove aveva trascorso la notte, la dama corse verso la boscaglia e, ritrovata la radura nella quale aveva rincorso le lucciole, si mise lei stessa a rovistare, col cuore gonfio d’apprensione, fra l’erba che aveva calpestato la sera precedente. Improvvisamente, quasi cedendo ad un magico richiamo, dal rugiadoso manto d’erba illuminato obliquamente dai raggi del sole mattutino si sollevò un lampo di luce sfolgorante: la gemma smarrita era ancora là, dove era caduta.
Vuole questo racconto gioiese che, per celebrare il felice ritrovamento e recupero di un così splendido e prezioso gioiello, la bellissima dama ordinasse che in quel luogo ameno si costruisse la sua nuova abitazione, alla quale diede il nome di Gioja.
Naturalmente, si tratta di una leggenda. Ogni città ha le sue. Ebbene, Gioia ne vanta appena due o tre, ma persistenti nella cultura popolare: questa e anche quella del mitico Re Porco, il cui tesoro sarebbe ancora sepolto da tempi immemorabili nel territorio gioiese, ed infine quello del passaggio segreto tra Monte Sannace ed il Castello cittadino.
Leonardo D’Erasmo, nel suo volume Gioia del Colle. Guida alla città, parlando dello stemma del Comune, ci offre una versione leggermente modificata di questa leggenda. C’era una volta una bellissima principessa cui piaceva vagare per boschi ed alture. Un giorno la carrozza in cui la dama viaggiava si trovò ad attraversare una collina fantastica, ricca di prati e popolosa di uccelli, bella al punto che ella volle fermarsi: si aggirò a lungo per campi e boschi finché, a sera inoltrata, decise di tornare a palazzo estasiata dalla gita.
Qualche giorno dopo la donna si accorse di aver smarrito una preziosissima collana di perle. Avrebbe dato qualunque cosa pe ritrovarla. Ordinò, dunque, ai servi e paggi di cercarla in ogni dove. Ma tutto fu inutile!
Dopo moto tempo, però, quando ormai nessuno più sperava nel ritrovamento, la principessa si ricordò di quella collina ricca di prati e popolosa di uccelli. Vi fece ritorno e subito recuperò le sue perle, perdute e ritrovate nell’estasi di una meravigliosa natura.
Ordinò allora che in quel luogo di edificasse una città e che a questa si desse il nome del suo sentimento: Gioia!
Naturalmente è una favola.
Probabilmente questa leggenda trae origine dallo stemma del Comune di Gioia. Il primo stemma di Gioia, scolpito dal primicerio Giovanni De Rocca nel 1480, rappresenta una coppa ricolma di perle, con un coperchio sollevato, circondato da spighe di grano.
Un’altra leggenda che è relativa ad una vicenda legata al Castello di Gioia.
Padre Bonaventura da Lama, nella sua Cronica de’ Minori Osservanti Riformati, ricorda che Federico II fabbricò una Torre ad ampliamento del castello di Gioia. Sotto questa Torre, v’è una prigione, chiamata l’Imperadrice, dov’è fama che qui Federico avesse tenuta carcerata per capriccio di gelosia la moglie gravida, diceva, d’un Paggio, ed avendo partorito dentro il Carcere un figlio, qual portava sopra di sé un segno del Padre, si troncò da se medesima le Mammelle, ed insieme col parto le inviò al suo marito, per lo che passò all’altra vita. Aggiunge: ed attualmente si vede nella Chiesa (Matrice) il Deposito, sopra di cui vi è una Dama scolpita con un figliuolo nelle fasce, e nel frontespizio uno scudo coll’Aquila. Oggi questa prigione viene proibita dal Reggio, perdendo chi vi entra ogni speranza di vita.
Padre Bonaventura non ci svela il nome della moglie gravida di Federico, mentre l’abate Francesco Paolo Losapio nel Quadro istorico poetico sulle vicende di Gioia in Bari detta anche Livia, confermando quasi integralmente quanto affermato dal Bonaventura, ipotizza che nella prigione fosse rinchiusa qualche sua concubina; e perciò credo fosse la madre d’Enzio o di Manfredo.
L’architetto Angelo Pantaleo, che diresse i lavori di restauro del castello nel 1907-1909, è più esplicito, in quanto afferma: Vuolsi che fu messa in prigione e vi morisse Bianca Lancia, madre di Manfredi, e che qui nascesse. Bianca accusata di infedeltà fu per ordine imperiale qui relegata benché incinta. Si partorì Bianca ed il pargolo era assai simile a Federico per un neo sulla spalla sinistra. Bianca si recise le poppe che unite al bimbo mandò a Federico in un vassoio. In seguito di ciò Bianca morì e qui fu tumulata. Ricordano il fatto due poppe sculte a rilievo. Fu rinvenuta una tomba vuota (Il restauro del castello di Gioia del Colle).
Il nostro concittadino Ricciotto Canudo (1877-1923), padre dell’estetica cinematografica, poeta, scrittore, eroe, dopo aver visitato il carcere sotterraneo del castello, riassume così la sua visita alla prigione del castello di Gioia: Ed io ho veduto le mammelle di Bianca Lancia, le ho vedute nel ricordo eternato della pietà del popolo, perché i carcerieri dell’infelicissima adultera amante del Re le scolpirono nel mezzo, ad altezza di uomo per indicare dove l’Imperatrice era morta. Ed il popolo che ha talvolta il concetto sacro dell’amore più di quello della gerarchia, battezzò la morta col nome di Imperatrice già che il grande Imperatore l’aveva amata e poi odiata e poi lacrimata. (Lettere di Arte: Visioni medievali in Puglia).
Si tratta di una leggenda, poiché non abbiamo notizie certe della presenza di Bianca Lancia nel castello di Gioia negli ultimi giorni della sua vita terrena, ma, come spesso capita quando si vuol dare risalto al proprio paese, tra il popolo fioriscono storie che ne esaltano la grandezza e potrebbero costituire fonte di attrazione per i turisti.
In realtà il toponimo Gioia compare in una pergamena del 1071 (Codice Diplomatico Barese) con il nome Ioa o Joa, in un documento che attesta la donazione di Riccardo Siniscalco del 1108 con il nome Ioi o Joi, in un documento del 1180 con Ioa o Ioha. Nell’Arma scolpita da Giovanni de Rocca ritroviamo il toponimo Ioe. Nel corso dei secoli successivi si susseguono le forme: Ioja, Ioya, Yoia, Jovia, Gioja e Gioia.
L’aggiunta ‘dal Colle’ risale alla deliberazione comunale del 16 agosto 1862, in adempimento alla disposizione del Ministro dell’Interno del 1862, che stabiliva che, per evitare equivoci ed imbarazzi per i privati e per le pubbliche amministrazioni, per quei Comuni che avevano la stessa denominazione era opportuno apportarvi qualche aggiunta desumibile dalla speciale posizione di ognuno di essi, a secondo che si trovasse in montagna, in pianura, in vicinanza del mare o di un fiume o di corrente.
Il Consiglio propone di conservare l’antica denominazione Gioja, poiché il nostro Comune era il più popolato tra quelli che avevano la stessa denominazione e perché era priva di mare, fiume, corrente o montagna, ma laddove si richiedeva necessariamente, come indispensabile, un attributo, si potrebbe aggiungere Gioia dal Colle, stanteche dessa è sita sul cratere di una piccola collina che bellamente sorge.
Verso gli anni ’30 del XX secolo il toponimo Gioia dal Colle si trasformò nell’attuale Gioia del Colle.
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21 Marzo 2021