Angelo Signorelli, il medico “ribelle” appassionato d’arte
Angelo Signorelli, il medico “ribelle” appassionato d’arte (Gioia del Colle, 1876 – Roma, 1952) Un’originalità che viene da lontano “Sento perfettamente fuse in me le due nature dei miei genitori, la semplicità, la bontà, la resistenza al lavoro di mio padre e la vivacità, l’impetuosità di mia madre: e l’uno era del nord, e l’altra […]
Angelo Signorelli, il medico “ribelle” appassionato d’arte (Gioia del Colle, 1876 – Roma, 1952)
Un’originalità che viene da lontano
“Sento perfettamente fuse in me le due nature dei miei genitori, la semplicità, la bontà, la resistenza al lavoro di mio padre e la vivacità, l’impetuosità di mia madre: e l’uno era del nord, e l’altra del sud” (lettera di Angelo Signorelli, 1906)
Con parole autografe introduciamo, per poi accompagnare nel suo svolgersi, il racconto biografico di un nostro concittadino vissuto a cavallo dei secoli XIX e XX, tra Gioia del Colle, Roma … ed il resto d’Europa, partendo ab origine, dal matrimonio contrastato dei genitori.
Suo padre, Giuseppe, di origini contadine, era nato nel 1838 a Villongo (BG), nel regno Lombardo Veneto, sotto la dominazione austriaca. Nel 1859, al compimento della maggiore età (21 anni), aveva svolto il servizio di leva, passando nel luglio 1861 alla 7° legione del corpo dei Carabinieri Reali a cavallo. Dopo aver partecipato alla guerra per l’indipendenza e l’unità italiana (1860-1861), combattendo ad Ancona e nell’Italia meridionale, in congedo a Bari nel 1867 si era trasferito a Gioia del Colle, dove conobbe Maria, la sua futura sposa.
Sebbene fosse stato decorato per meriti sui campi di battaglia, quando la ragazza confidò alla madre, Antonietta, d’essersene innamorata, nella famiglia Laera scoppiò lo scandalo: i genitori, proprietari terrieri benestanti, con buona probabilità borbonici, minacciarono di diseredarla, pur di non vederla sposata ad un carabiniere, forestiero, e per giunta combattente per l’Unità d’Italia. Maria, vivace e risoluta, si ribellò all’autorità paterna; col novello sposo costruì una casetta in un fondo di sua proprietà ed aprì in paese uno spaccio di sali e tabacchi. Giuseppe, che era un uomo semplice, onesto e laborioso, da contadino e carabiniere si trasformò in commerciante, per provvedere alla famiglia. Nacquero cinque figli: due maschi e tre femmine. I familiari della madre continuarono a mantenere con loro un rapporto freddo e distaccato, eccetto con il piccolo Angelo.
La fanciullezza solitaria e il fascino degli eroi
Con le sorelle educande in convento, “le uniche scuole del paese”, ed il fratello “rinchiuso in convitto”, Angelo, che era l’ultimogenito, si ritrovò solo, senza compagni di gioco. Il desiderio della solitudine avrebbe caratterizzato la sua natura di uomo adulto.
Della scuola elementare serbava un ricordo vago e spiacevole (qualche maestro che picchiava crudelmente i bambini), mentre i ricordi più cari, che avrebbero forgiato la sua anima, erano legati all’esempio di vita concorde e laboriosa dei suoi genitori e ai racconti di gioventù del padre. Angelo trascorreva, infatti, tutto il tempo libero nella piccola bottega di famiglia, aiutando i genitori e condividendo le loro preoccupazioni, ma anche rivivendo la storia dell’Unità d’Italia, attraverso i suggestivi racconti paterni.
“Ricordo nelle sere fredde d’inverno (al mio paese cade spesso la neve che dura molti giorni) alla luce d’un incerto lume a petrolio si riunivano nella bottega un vecchio zio barbiere, un vero filosofo alla Gorki che viveva con due tazze di caffè al giorno e qualche soldo di pane e la domenica faceva la barba a mio padre, e poi ancora un pubblico di quattro o cinque tra i più modesti del paese e spesso anche un mio zio prete che viveva a Milano. Mio padre raccontava semplicemente gli aneddoti della sua vita militare e le diverse campagne cui aveva partecipato per l’indipendenza d’Italia. Tutti lo ascoltavano in silenzio e più di tutti lo ascoltavo io. Fu il primo che parlò all’anima mia fanciulla degli eroi, e da lui, per primo, sentii parlare di Garibaldi che già con le sue camicie rosse era apparso sulle balze del Tirolo”.
Il distacco
Era il 1887. Angelo, che aveva appena 11 anni, per continuare a studiare lasciò Gioia, dov’erano solo le scuole elementari, e si trasferì a Taranto da una zia materna, per frequentare la scuola tecnica. Tornava a casa durante le vacanze estive, verosimilmente in treno. Da più di vent’anni, ormai, era funzionante il tronco ferroviario Bari-Taranto, inaugurato nel 1865.
Proseguì gli studi nella Regia Scuola Tecnica Cagnazzi di Altamura e a 18 anni, nel 1894, partì alla volta di Roma, per iscriversi all’Università. Suo padre, che avrebbe voluto fare di lui un commerciante, per la sua serietà e perspicacia, lo lasciò andar via a malincuore: “Mio padre mi accompagnò alla stazione. Eravamo soli. Lui volle portare la mia valigia. Piangeva. Non mi disse nulla: solo mi disse “Figlio mio!”.
Qualche mese dopo, una caduta dal cavallo imbizzarrito, il suo prediletto, di nome Pietro, con cui ogni mattina soleva andare in campagna, provocò a Giuseppe Signorelli la frattura della colonna vertebrale e lo costrinse all’immobilità. Il figlio maggiore, Giovanni, fu richiamato a Gioia, ad assumere la responsabilità della famiglia: dovette abbandonare gli studi di Legge nell’Università di Bologna, per lavorare a Bari come Volontario Demaniale.
Angelo, invece, restò a Roma, dove si era iscritto alla Facoltà di Medicina. “Bari” lo soprannominarono ben presto i colleghi, canzonandolo per il suo inconfondibile accento pugliese. Era un bravo ragazzo: ospite della sorella Angelina, che aveva sposato un impiegato delle Poste, dava lezioni di matematica e scienze naturali e compilava dispense universitarie, per non pesare troppo sul bilancio familiare. Nel 1895 gli venne concesso di compiere il servizio militare proprio a Roma, dove aveva il domicilio, in sostituzione del fratello, che era impossibilitato ad assolverlo per non perdere il posto di lavoro. Ciò gli consentì di proseguire gli studi.
La giovinezza nel segno della “ribellione” ovvero al servizio degli ideali
I racconti paterni di imprese eroiche, sedimentatisi sin dalla fanciullezza nel suo animo irrequieto, facevano ora emergere impetuosamente in lui il desiderio di difendere gli oppressi.
Quando nel 1897 scoppiò la guerra tra Grecia e Turchia, Angelo si arruolò come volontario garibaldino in una legione di studenti, la “colonna Bertet”, ma nel mese di giugno dello stesso anno quei giovani vennero sbarcati a Bari, “sicuri di essere tutti arrestati. Eravamo in prevalenza socialisti e anarchici. Invece ci accolse una folla di popolo festante e ci portarono in trionfo e ci acclamarono ovunque passammo. Io mi distaccai dagli altri e andai a casa, al mio paese che dista appena due ore da Bari. Fui festeggiato dalla mamma. Mio padre era morto da quattro mesi. Alla fanciulla che allora amavo e che non si fece vedere, lasciai partendo sulla soglia di casa sua un fiore che avevo raccolto sui campi di Grecia e una cartuccia di fucile”.
Nel mese di giugno del 1899 alcune discriminazioni operate dal rettore dell’Università di Roma, Luciani, scatenarono disordini di studenti. Angelo vi prese parte e pagò a caro prezzo il suo idealismo: prima venne escluso dalla sessione estiva di esami con una delibera del Senato Accademico, poi fu tenuto d’occhio dalla Questura in quanto “anarchico e socialista”, finché nell’agosto del 1900, dopo l’assassinio di re Umberto I a Monza ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci, fu imprigionato nel carcere romano di “Regina Coeli”.
Non si lasciò prendere dallo sconforto, anzi si sforzò di impegnare utilmente il suo tempo: scriveva poesie su frammenti di carta, ma soprattutto chiese libri per continuare a studiare, tanto da riuscire a laurearsi quasi un anno dopo, il 21 luglio 1901, in Medicina e Chirurgia, e con il massimo dei voti.
Una fulgida carriera. L’incontro di due anime
Appena qualche mese dopo la laurea, il 12 novembre, vinse il concorso di assistente medico-chirurgo. Nel 1903 cominciò a lavorare nella clinica del professor Baccelli, come aiuto di Semeiotica Medica, continuando fino al 1911. Negli anni successivi ricoprì molti incarichi nell’Ospedale di Santo Spirito e all’Università. Pubblicò una sessantina di lavori scientifici, segnalandosi in Italia e all’estero per la scoperta di numerosi segni diagnostici.
Era all’inizio della sua carriera quando conobbe Olga Resnevič, studentessa di Medicina, di sette anni più giovane, che aveva abbandonato la famiglia e la Lettonia, allora provincia baltica della Russia, per potere intraprendere una professione con cui realizzare i suoi ideali umanitari. Dopo un anno trascorso in Svizzera, insieme ad altri rifugiati, aveva visitato Siena e, affascinata dalla figura di santa Caterina, vi si era stabilita iscrivendosi alla Facoltà di Medicina.
Nell’autunno del 1906 Angelo ed Olga resero pubblica la loro unione, suscitando scandalo nell’ambiente medico ed universitario, dove Angelo era noto come ribelle per i suoi precedenti; quindi si trasferirono insieme ad una domestica, Beppinella, in un appartamentino di sole due stanze, con un arredo essenziale e una terrazza piena di fiori, noncuranti dei pettegolezzi dei colleghi. Angelo lavorava vicino casa, nel 1° Padiglione del Policlinico “Umberto I”, di cui divenne Direttore di Reparto. Olga, invece, si unì al gruppo di Angelo Celli e sua moglie, che dal 1900 portavano assistenza sanitaria alle misere popolazioni dell’agro romano.
Nell’agosto del 1907 Angelo si recava in Lettonia, per incontrare i genitori di Olga. Il 17 luglio 1908 anche Olga si laureò in Medicina e Chirurgia nell’Università di Roma: fu una delle prime donne medico. A novembre diede alla luce la prima figlia, Maria; ne seguirono altre due. Nel 1909, per interessamento di un suo professore, il noto ginecologo Cesare Micheli, Olga assunse la cura dell’ambulatorio “Regina Elena” per bambini poveri, sito in Trastevere: era allocato in due stanze di una casa popolare al pianterreno e non godeva di alcun sussidio, tanto che la direttrice, Nadine Helbig, pianista tra le migliori allieve di Liszt, per finanziarlo organizzava ogni anno due concerti di beneficienza, spesso nella sala del Teatro Nazionale, che la proprietaria, la sig.ra Tebaldi, le concedeva a titolo gratuito.
Angelo non poté collaborare con Olga, per il suo incarico di Direttore di Reparto. Intanto la sua carriera subiva una battuta d’arresto: pur essendosi classificato primo tra gli idonei al concorso per esami e titoli, a quattro posti di Medico Primario, bandito nel 1910 dal “Pio Istituto di Santo Spirito e Ospedali Riuniti” di Roma, non lo vinse, probabilmente perché schedato in Questura come “ribelle”. Allora nell’agosto del 1911, su consiglio di madame Helbig, si recò a proprie spese ad Edimburgo, per partecipare ad un importante congresso di aggiornamento sulla lotta antitubercolare. Ciò gli fruttò, il 15 ottobre 1913, la nomina a Direttore del Dispensario Sanatorio “Regina Elena” (situato nei pressi di Castel Sant’Angelo), istituito dal professor Rossi Doria, assessore per l’Igiene, per la lotta contro la tubercolosi, incarico che mantenne fino al 1926.
L’ingresso nell’alta società
Nel frattempo, sempre grazie a madame Helbig, Olga ed Angelo si erano inseriti come medici nell’ambiente cosmopolita romano, annoverando tra gli amici e i pazienti molti tra i più importanti esponenti della vita politica (tra cui principi, ambasciatori) ed artistica del tempo, e… avevano cambiato casa. Dal modesto appartamentino di due stanze, sprovviste di caminetto, in cui erano vissuti fino ad allora, avevano traslocato, caricando i pochi arredi su un carretto a mano, nel lussuoso appartamento dato in affitto a £ 340 al mese dalla principessa Maria Bonaparte Guidi, in Via XX Settembre, n. 68.
“Sette vani e camera da bagno più quattro camere, cucina e vasche da lavare al sottosuolo, più l’uso di un piccolo giardino”, ma soprattutto un bel camino, incorniciato da marmi policromi, avevano affascinato il medico trentaquattrenne, un giorno al ritorno in carrozzella da una delle vendite all’asta, cui abitualmente partecipava.
Da quel momento in poi, per un quarantennio, casa Signorelli ospitò di giorno un ambulatorio medico, in un salottino con poltrone impagliate e vista sul giardino, tramutandosi di sera in un frequentatissimo salotto artistico-letterario. Angelo si fece mecenate di giovani artisti della sua generazione, spesso in difficoltà economiche, come Armando Spadini, Ardengo Soffici, Filippo De Pisis, Giorgio De Chirico, di cui fu il primo acquirente in Italia. Tra i letterati suoi amici erano: Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Ungaretti, Umberto Zanotti Bianco, Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro.
Il mercoledì sera era riservato agli intrattenimenti musicali, con le prove al pianoforte di trii e quartetti di Bach, Brahms e Beethoven, allora mai eseguiti in concerti. La porta di casa, lasciata aperta, perché il campanello non infastidisse musicisti ed uditori, vide una sera solcare la soglia nientemeno che da Eleonora Duse!
Il collezionismo archeologico, una passione “atavica”
“Le radici del mio essere affondano nell’humus della Magna Grecia dove fiorì l’arte e la vita. E i documenti di quell’arte e di quella vita ci sono significati dai vasi, dalle terrecotte, dalle monete”.
Da bambino e da ragazzo, durante le vacanze estive, la sua occupazione preferita era assistere alla ricerca di oggetti antichi in località Monte Sannace, che solo a partire dal 1957 sarebbe stata interessata da regolari campagne di scavo. Ciò che emergeva dal “ventre della madre terra” lo estasiava. Quei reperti costituirono il primo nucleo della sua collezione, che in seguito Angelo avrebbe arricchito con la partecipazione a vendite all’asta, su consiglio di clienti e antiquari, tra cui i fratelli Jandolo di Roma, Vincenzo Fioroni di Tarquinia e Lorenzo Ceppaglia di Gioia, e lasciandosi persino guidare nelle ricerche, tra il 1911 e il 1914, da un archeologo suo amico, Wolfang Helbig.
Polo d’attrazione per i suoi ospiti erano, appunto, le grandi vetrine del salotto con i reperti archeologici della sua terra in bella mostra; le monete antiche erano riposte, invece, nel suo studio, dove fino agli ultimi anni soleva ritirarsi la sera, per rilassarsi dopo un’estenuante giornata di lavoro. Lo ricordava così Maria, la sua primogenita, alla quale si deve un’interessante biografia e la pubblicazione postuma di vari scritti paterni.
La “Medicina sociale” per il progresso e la cura della sofferenza (1914-1926)
All’assistenza offerta dal Sanatorio Angelo abbinò un servizio a domicilio, affidandolo a donne, le “assistenti sanitarie”, e nel 1914 inaugurò il giro delle visite con una di loro, la marchesa di Roccagiovane.
Durante la prima guerra mondiale fu un interventista convinto. Nel gennaio del 1916 istituì e presiedette a Roma un “Comitato di soccorso per i profughi serbi”, in gran parte professionisti, funzionari, commercianti, artisti, ma anche operai e contadini soprattutto montenegrini, che cominciavano ad affluire nella capitale, di passaggio verso la Francia. Poi il 28 agosto partì volontario come Maggiore Medico e al fronte ricevette l’incarico di fondare l’Università Castrense di S. Giorgio di Nogaro (UD), per la formazione dei giovani medici. Assolse il suo compito con entusiasmo, educando alla serietà ed alla responsabilità della professione medica.
Intanto Olga lo sostituiva sia nell’ambulatorio domestico sia, provvisoriamente, come direttrice del Dispensario “Regina Elena”. In quel periodo i due si tenevano aggiornati per corrispondenza, con un fittissimo epistolario, scrivendosi anche due volte al giorno. Le loro strade e le loro vite, però, si divisero alla fine della guerra: Olga abbandonò l’esercizio della medicina per la cultura, l’arte, il teatro, cambiando anche dimora; Angelo si consacrò alla medicina sociale e, più tardi nella maturità, rimasto solo, si unì ad un’altra donna, dalla quale ebbe la sua quarta figlia.
Già subito dopo la guerra Angelo trasformò il suo studio in Gabinetto Radiografico, per la diagnosi della tubercolosi, con un apparecchio radioscopico acquistato nel gennaio del 1917. Nel 1919 fondò, come direttore e docente, la Scuola per assistenti sanitarie, che, da semplice istituzione privata, sarebbe diventata una delle più importanti attività assistenziali femminili, tanto da fargli meritare una medaglia d’oro della Croce Rossa, in segno di riconoscimento come iniziatore.
La sua missione di medico, al di sopra della politica, fu pesantemente intralciata dal Regime. Nel 1922 Angelo Signorelli fu tra i primi a visitare a Roma e a curare Mussolini, pur non essendo iscritto al Partito Fascista. Quando, però, invitato dal Governo sovietico, nel 1923 partecipò al congresso panrusso di medicina e igiene sociale a Mosca, dove insieme ai medici tedeschi visitò Lenin, che era stato colpito da un’emiplegia destra, ed al ritorno in Italia riferì le sue esperienze in alcuni articoli sulla “Tribuna”, fu schedato come comunista e sorvegliato speciale (1924-1927).
Ciò comportò il forzato abbandono delle sue attività ufficiali: la direzione dell’“Istituto di San Gregorio al Celio”, per l’educazione materna e dell’infanzia, di cui era titolare dal 1922, e la lotta contro la tubercolosi, occupando l’ultima posizione nel Dispensario “Regina Elena”, che rimase alle dipendenze degli Ospedali Riuniti fino al 1926. Continuò, tuttavia, ad impegnarsi in privato: nella sua casa impiantò “un completo, attrezzatissimo e modernissimo laboratorio per raggi “X””.
La riabilitazione ad opera di un paziente illustre. Una storia controversa
Nel 1932 un suo paziente, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, gli consigliava di iscriversi al Partito. Non conosciamo la decisione di Angelo, ma di lì a qualche anno la sua carriera riprese l’ascesa. Nel novembre del 1935 ricevette, infatti, da De Vecchi, divenuto Ministro dell’Educazione Nazionale, l’incarico della Direzione dell’Istituto di Semeiotica Medica, con il relativo insegnamento nell’Università di Roma. Gli studenti accorrevano numerosi alle sue lezioni appassionate e “singolari”. Contemporaneamente fu nominato Primario del 9° Padiglione del Policlinico.
Dovette pentirsi, però, ben presto di quell’amicizia influente. Nel 1936, infatti, il Ministro si recò in visita a Rodi nel mar Egeo, sollecitato proprio da Angelo, che vi era stato due anni prima d’estate, accogliendo l’invito dell’amico governatore, Mario Lago, a constatare i lavori di ammodernamento da lui compiuti nell’ultimo decennio. De Vecchi sarebbe rimasto talmente affascinato da quei luoghi, da farsi nominare Governatore delle Isole dell’Egeo, subentrando con la forza a Mario Lago, al quale avrebbe ordinato di imbarcarsi quella notte stessa per l’Italia, per prevenire un’eventuale ribellione locale. La moglie dell’ex Governatore, Ottavia, impazzì per il trauma e Mario dovette ritirarsi a vita privata per curarla, in una sua villa di Capri, “La Petrara”. Angelo se ne sentì penosamente responsabile.
Alla fine del 1943, dopo la caduta del fascismo, Angelo Signorelli fu rimosso definitivamente dall’incarico d’insegnamento, ma non volle presentare nessuna domanda di riabilitazione. Anzi serenamente affermava: “Ormai sono vecchio, debbo occuparmi, fin che posso, della mia professione, che ho trascurato per l’insegnamento in questi ultimi anni. Me ne starò a casa mia a lavorare con tranquillità”. Dalla sua pacata autodifesa ci si rende conto di come egli abbia perseguito, quasi perfezionato, i suoi ideali umanitari anche nella maturità.
“Appartengo agli Ospedali Riuniti da 35 anni: facile è sapere come io abbia adempiuto a questi incarichi e se mai vi sia stato asservimento delle mie attività ad idee e movimenti all’infuori di quelli scientifici e umanitari. Una sola eccezione: la guerra ultima. Nel reparto da me diretto ho ricoverato, e ne potrei dare l’elenco, un gran numero di persone soggette ad obblighi militari o perseguitati politici e razziali. Il 5 giugno, all’arrivo degli alleati, la mia corsia si svuotò quasi completamente ed alcuni erano ricoverati dai primi del settembre del 1943. E così ospitai nella mia casa ufficiali partigiani sfuggiti all’arresto nelle tragiche giornate delle Fosse Ardeatine.”
Continuò ad essere l’uomo schivo di sempre, dedito alla sua missione di medico anche entro le mura domestiche, finché il 20 ottobre 1952, all’età di 76 anni, fu stroncato da un male inesorabile, che aveva nascosto ai suoi. L’annuncio della sua morte fu dato ad esequie avvenute.
L’eredità culturale e scientifica di Angelo Signorelli e di Olga Resnevič fu raccolta dalle tre figlie: Maria, famosa scenografa e burattinaia (1908-1992); Elena, medico (1910-2005); Vera, letterata (1911-2004).
Testo liberamente tratto nel 2011 da M. Signorelli, Vita di Angelo Signorelli, in “Strenna dei Romanisti”, 1987, pp. 643-660.
8 Giugno 2018