Gesù, il Crocifisso (Riflessioni sulla Passione)
Specialmente nella Settimana Santa, pensando a Gesù, alla Sua terribile “Passione” e morte in croce, almeno una volta nella vita ci siamo chiesti: perché uccidere proprio Lui, che predicava l’amore di Dio e l’amore per il prossimo? Da un punto di vista strettamente umano ciò avvenne per due motivi, uno religioso ed uno politico. Il […]
Specialmente nella Settimana Santa, pensando a Gesù, alla Sua terribile “Passione” e morte in croce, almeno una volta nella vita ci siamo chiesti: perché uccidere proprio Lui, che predicava l’amore di Dio e l’amore per il prossimo?
Da un punto di vista strettamente umano ciò avvenne per due motivi, uno religioso ed uno politico. Il motivo religioso presenta molteplici sfaccettature. Innanzitutto Gesù era contrario all’osservanza puramente formale della legge mosaica, come dimostra l’episodio della prostituta salvata dal linciaggio: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”, disse Gesù, rivolgendosi ai presenti, ma nessuno ebbe il coraggio di farlo… Per le sue parole sul Tempio, che avrebbe ricostruito in tre giorni, riferendosi con esse al suo corpo e non al Tempio di Gerusalemme, il luogo sacro degli Ebrei per eccellenza (per cui una tale affermazione appariva loro pari ad una bestemmia). Per il suo atteggiamento, che destava scandalo: frequentava peccatori e mangiava con loro.
In sostanza Gesù con i suoi insegnamenti ed il suo esempio avrebbe capovolto la visione religiosa della gente e abbattuto i privilegi di una ristretta cerchia di persone, che detenevano il potere; andava, dunque, eliminato.
Anche per un motivo politico, perché per ucciderlo occorreva l’intervento dello Stato (cioè dei Romani, i dominatori, che non sarebbero mai intervenuti in questioni messianiche o teologiche locali, a cui non erano interessati), di qui l’accusa pretestuosa mossa contro Gesù di fomentare disordini pubblici, rivolgimenti sociali, accusa poi riportata sul titulus crucis, la tabella fissata sulla sommità del palo e recante la motivazione della condanna: la sigla I.N.R.I. (Iesus Nazarenus rex Iudaeorum: Gesù di Nazareth, re dei Giudei).
Eppure Gesù abbracciò volontariamente la Passione, e di certo non per dare una prova di coraggio e di ribellione al potere romano, ma per aderire al progetto di salvezza di Dio su di noi, suoi figli. Si parla sempre di consegne: Giuda, con il bacio del tradimento nell’Orto degli Ulivi, consegnò Gesù ai Sommi Sacerdoti, questi a loro volta lo consegnarono ad Erode ed Erode a Pilato, tanto che quel giorno i due divennero amici. Ma fu in realtà un’autoconsegna: Gesù non fuggì e prima di spirare, “Abbà (papà)” – disse – “nelle tue mani consegno il mio Spirito”, parola che qui indica non solo l’alito di vita, ma la sua divinità, il sostegno del Padre, che glielo restituirà con la Resurrezione.
Gesù ha sofferto atrocemente, in quanto vero uomo (oltre che vero Dio) e poiché si accanirono su di Lui con una crudeltà spietata, diabolica, che racchiudeva in sé tutto il male del mondo. Perché mai? Per riscattarci da quello stesso male! Della Sua atroce sofferenza abbiamo le prove, scientifiche e storico antropologiche.
Prova scientifica è la Sindone (appena un anno fa, nel 2010, l’ostensione a Torino), ne è convinto Donato Ogliari, abate del monastero benedettino “Madonna della Scala” di Noci: la Sindone non è un dogma di fede, ma rivela in dettaglio le cause delle sofferenze di un uomo del I secolo; anche il noto film “Passion” di Mel Gibson è vicino alla realtà.
Prova storico antropologica è la flagellazione, che poteva essere praticata in misure diverse: era più pesante, se inflitta a scopo di punizione; più leggera, consistente all’incirca in venti frustate, se precedeva la crocifissione, per non debilitare il corpo che doveva portare il patibulum (il braccio orizzontale della croce) e affinché la morte fosse più lenta e straziante, in modo da dare spettacolo… e fungere da deterrente.
Ebbene dalla Sindone risultano centoventi frustate (cento più del previsto!): il numero, esorbitante, dimostra che Pilato intendeva “solamente” punire Gesù, per poi liberarlo, ma al tempo stesso conferma che Gesù ha sofferto molto più dei compagni condannati alla stessa sorte.
Il flagello, inoltre, atroce strumento di tortura, aveva all’estremità strisce di cuoio su cui erano fissati quadratini di legno o frammenti di osso, che laceravano le carni, fino a far emergere le ossa e le viscere. Si aggiunga che la corona di spine non era un cerchietto, come usualmente si vede sulle sculture dei crocifissi, ma un vero e proprio casco che copriva la testa, a mo’ di copricapo orientale o di mitra indossata dai vescovi e dagli abati attuali, per giunta conficcato a furia di colpi di mazza.
Gesù, inchiodato nudo sulla croce e fuori città, come un animale destinato ad un antico sacrificio di espiazione, ha subito un’umiliazione ulteriore a quella della condanna in sé, riservata a coloro che non erano cittadini romani, agli schiavi ribelli e ai delinquenti. La follia della croce, appunto, come la definisce l’apostolo Paolo: “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani”, ma che “per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio”.
L’umanità del Figlio di Dio emerge tutta sulla croce. “Papà, perché mi hai abbandonato?” ovvero “perché permetti che si accaniscano così su di me?”: malgrado l’apparenza, questa è un’invocazione fiduciosa, poichè il termine del linguaggio familiare, “abbà”, corrispondente al nostro “papà”, sta ad indicare che Dio è vicino nella sofferenza, che è presente, non lontano, come emotivamente si ritiene, quando ci si trova in difficoltà.
A conferma di questa consolante verità della fede, padre Donato Ogliari cita nel suo libro, “Crux. Meditazioni sul Venerdì Santo”, edito nel 2010, alcuni episodi eloquenti, realmente accaduti, attraverso i racconti dei rispettivi protagonisti.
In un campo di concentramento nazista alcuni prigionieri venivano impiccati sotto lo sguardo dei compagni, costretti ad assistere all’esecuzione, ma un bambino impiegava di più a morire perché leggero; tra il pubblico allora si udì un lamento reiterato: “Dov’è Dio?!”, e qualcuno rispose tra sé e sé: “è appeso a quella fune”, sentendo intimamente che Dio era lì presente e soffriva con loro nel suo amore paterno, ma anche che la morte non sarebbe stato l’ultimo atto.
Ed ancora: un ragazzo francese, non battezzato, abitava in una comunità di tossicodipendenti, che considerava la sua famiglia, non avendo conosciuto la propria; nelle situazioni più difficili, il giovane traeva forza abbracciando ogni sera in un angolo della città un misterioso “palo energetico”, che scoprì poi essere la Croce, simbolo di Cristo. Fuggito dalla comunità, per salvarsi dall’ennesima minaccia di un’iniezione di eroina, che volevano somministrargli contro la sua volontà, e salito a bordo di una macchina con un “autostop”, il ragazzo notò infatti lo stesso simbolo al collo del conducente, che alla sua domanda “Cos’è quello che porti al collo?”, gli rispose: “è l’amore di Dio per me”.
Persino nel culmine della sofferenza Gesù non inveì contro i suoi aguzzini, né invocò vendetta dal Padre, ma piuttosto perdono, “perché non sanno quello che fanno”! è la più alta manifestazione d’amore, così come il Calvario è la “massima manifestazione del desiderio di Dio di condividere – portandole su di sé – le pene dell’umanità ferita”.
20 Aprile 2011